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Martedì 7 Maggio 2024 12:05

“Si curi chi può”: salute pubblica, diritto negato



Report di Adoc ed Eures sullo stato di salute della sanità in Italia. Nel 2027 il 6,2% del Pil per la spesa pubblica: il minimo storico. Gli infermieri, 25% in meno della media Ue

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L’Italia è il Paese europeo che investe di meno nella sanità pubblica. Il rischio è che “si curi chi può”. A metterlo in evidenza sono Adoc ed Eures, nel rapporto “Sanità pubblica e tutela della salute”, appena pubblicato. Il progressivo disimpegno dello Stato italiano è certificato dalla riduzione della spesa sanitaria in termini reali, in flessione del 3,7% tra il 2021 e il 2022 e dello 0,8% rispetto al valore del 2020 (anno base 2015). Le previsioni di spesa riportate nel Def evidenziano un calo dell’incidenza della spesa sanitaria sul Pil, che nel 2027 toccherà il minimo storico degli ultimi 15 anni: il 6,2%.

Il contesto europeo rende ancora più evidente la scarsa attenzione della politica italiana alla sanità: la spesa pubblica pro capite in sanità (a parità di potere d’acquisto) si attesta, infatti, in Italia, a 2.180 euro, con scarti rilevanti nel confronto con i principali benchmark dell’Unione, quali Germania e Francia, dove raggiunge, rispettivamente, i 4.641 ed i 3.766 euro per abitante. Superiore alla spesa italiana è anche quella della Norvegia (4.445 euro), del Belgio (3.387 euro), dei Paesi Bassi, dell’Irlanda e della Svezia. Dopo l’Italia, soltanto la Grecia (1.196 euro), la Polonia (1.491 euro) e il Portogallo (1.768).

A fronte del disimpegno nelle politiche pubbliche, cresce la spesa sanitaria privata: tra il 2012 e il 2022, infatti, la spesa complessiva “out of pocket” delle famiglie italiane è passata da 31,5 a 36,8 miliardi di euro (+16,9%), pari ad una spesa media mensile di 113,5 euro; tale valore scende tuttavia a 97,3 euro al Sud (-15% sulla spesa media nazionale e -21% rispetto a quella del Nord), evidenziando una correlazione diretta tra livelli di reddito e accesso alla prevenzione e alle cure. Ciò nonostante, l’incidenza della spesa sanitaria delle famiglie su quella totale (pari in Italia al 4,3%), risulta più alta tra le fasce di popolazione più vulnerabile (5,5% tra gli anziani soli e 6% nelle coppie anziane) e nelle aree con la maggiore carenza di servizi (4,6% al Sud e 4,5% nelle Isole, contro il 4,4% del Nord Est e il 4,2% del Nord Ovest), evidenziando come la necessità delle cure vada ad erodere quote crescenti del reddito proprio tra i cittadini delle fasce meno abbienti.

Il personale medico del Servizio sanitario nazionale ammonta nel 2022 a 101.827 unità: lo 0,6% in meno rispetto al 2021 e il 2,7% in meno rispetto al 2012 (-7,5% al Sud), raggiungendo il -4,4% su scala ventennale. Si segnala inoltre come in Italia, nel 2022, il 54,1% dei medici abbia 55 o più anni (fonte Eurostat, riferita anche al settore privato), a fronte del 44,5% in Francia, del 44,1% in Germania e di appena il 32,7% in Spagna. Gli infermieri dipendenti del Ssn (268.013 quelli censiti in Italia dal ministero della salute), pur in leggera crescita rispetto al 2012, sono 6,2 per 1 000 abitanti: un valore inferiore del 25% rispetto alla media Ue, pari a 8,5 per mille abitanti. Ciò significa che per adeguare la “dotazione” italiana a quella dell’Unione europea sarebbero necessari altri 100mila infermieri (+99.400), peraltro difficilmente reperibili vista la prospettiva del tutto insufficiente di laureati in queste discipline. «Occorre inoltre sottolineare come la leggera crescita sopra rilevata risulti interamente determinata da quella dei lavoratori “precari” – si legge nel rapporto -: tra il 2013 e il 2021, infatti, il personale infermieristico inquadrato con contratto flessibile è aumentato del 152,4% (da 9.863 a 24.890 unità in termini assoluti), mentre la crescita su base quinquennale si attesta sul +54,6% (+8.792 unità in valori assoluti)».

“Si curi chi può”. Nel 2022, prestazioni intramoenia sono aumentate del 16,7%, per oltre 1 miliardo di spesa. «Queste prestazioni, che pure intendono rispondere all’obiettivo di una riduzione delle liste d’attesa, contribuiscono a sottrarre risorse ai cittadini per l’erogazione di servizi invece dovuti, alterando ulteriormente lo scarto nell’accesso alle cure in base alle condizioni economiche – si legge nel rapporto -. Con riferimento ai dati disponibili al riguardo, è possibile stimare che la spesa complessivamente sostenuta dalle famiglie per queste prestazioni superi nel 2022 il miliardo di euro (1,18 miliardi), con una crescita dell’8,5% rispetto al 2021 e del 5,3% sul 2016. Le visite e prestazioni diagnostiche ambulatoriali erogate in regime Alpi (4,93 milioni di unità nel 2022) rappresentano il 7,7% di quelle complessivamente erogate nel 2022, con una crescita del 16,7% sul 2021, mentre le prestazioni erogate in “regime istituzionale” (59,8 milioni di unità nel 2022) crescono appena del +3,7%».

Cresce anche la cosiddetta mobilità sanitaria, ovvero la condizione di coloro che per curarsi devono recarsi in una regione diversa dalla propria (cioè la mobilità effettiva). Nel 2022, le prestazioni sanitarie erogate in una regione diversa da quella di residenza sono 19,2 milioni nel, con una crescita complessiva dell’8,1% rispetto al 2021 (quando erano 17,8 milioni) e del 42,1% rispetto al 2020 (13,5 milioni). In linea con gli altri dati osservati, la mobilità sanitaria si configura essenzialmente come migrazione dei cittadini dal Sud verso Nord, con un conseguente dirottamento di risorse economiche tra queste aree. Considerando congiuntamente l’assistenza ospedaliera e le prestazioni specialistiche ambulatoriali, il saldo dei volumi della mobilità registra un valore negativo di -5,5 milioni di prestazioni per i residenti del Sud, assorbito in larga misura da quelle del Nord (+3,7 milioni), mentre un quadro di maggiore equilibrio riguarda le regioni del Centro (+1,9 milioni di prestazioni). In termini finanziari ciò significa per le regioni del Sud una “perdita” di 950 milioni di euro, laddove al Nord e al Centro l’attivo tra “entrate” e “uscite” risulta pari a +877 e +47 milioni di euro.

Il rapporto riprende poi i dati Istat relativi ai cittadini che rinunciano alle cure: nel 2023 il 7,6% dei cittadini italiani, ovvero 4,5 milioni in valori assoluti. Si tratta di un risultato in crescita di 0,6 punti percentuali rispetto al 2022, sebbene ancora distante dai valori osservati nel 2020 e nel 2021, (rispettivamente, 9,6% e 11%), tuttavia fortemente condizionati dalla pandemia. La rinuncia alle cure coinvolge primariamente le donne, tra le quali l’incidenza si attesta al 9%, contro il 6,2% tra i maschi. Rinunciano alle cure soprattutto persone in età mature: nella fascia 45-64 anni, infatti, il tasso di rinuncia alle cure raggiunge il 10,3%, scendendo lievemente (9,8%) tra i cittadini con almeno 65 anni di età, per attestarsi sui valori più bassi tra i giovani (2,6% tra gli under 25enni).

Le proposte di Adoc. «Non possiamo più ignorare il fatto che sempre più persone, soprattutto le più vulnerabili, stanno rinunciando alle cure a causa della diminuzione della spesa sanitaria e dell’inasprimento delle proprie condizioni economiche – commenta Anna Rea, presidente di Adoc -. Tutti i cittadini hanno un eguale diritto alla salute, ma nel nostro Paese non è più così: solo chi ha soldi si cura e ciò determina disuguaglianze economiche e sociali insanabili. Garantire l’accesso universale ai servizi sanitari e assicurare risposte e cure tempestive alle esigenze dei cittadini rappresenta per l’Adoc una battaglia di civiltà. È per questo che abbiamo deciso di lanciare “No alla povertà sanitaria. La salute non è un privilegio ma un bisogno primario”, una campagna di sensibilizzazione e informazione in ogni regione d’Italia per rendere esigibile questo diritto. Madrina della campagna è l’attrice Rosanna Banfi».

Adoc avanza quindi alcune proposte concrete. Primo, un piano straordinario per la sanità pubblica. «L’Italia è il Paese che investe meno rispetto agli altri Paesi europei. Non sono più rinviabili investimenti nel comparto a partire dall’assunzione del personale, a condizioni lavorative dignitose e con garanzie retributive adeguate, al rilancio dell’edilizia ospedaliera per ovviare alla mancanza di posti letto e all’adeguamento degli ospedali più vetusti. Infine, occorre abbattere le infine liste d’attesa che di fatto stanno facendo aumentare gli squilibri territoriali, generazionali e di genere e che rischiano di amplificarsi ancora di più con la proposta di legge sull’autonomia differenziata», afferma Rea. Secondo: la medicina territoriale. «A tre anni dal Covid, siamo ancora in alto mare – denuncia Rea -. Bisogna arrivare in tutti i luoghi, nelle periferie e nei territori più lontani, bisogna raggiungere chi non può permettersi di spostarsi o “emigrare” per le cure. Servono ospedali e case di comunità, luoghi fisici ai quali i cittadini possono accedere per bisogni di assistenza sanitaria e socio-sanitaria e non intasare pronto soccorso e ospedali, progetti questi previsti e in molti casi rimasti sulla carta».

Terzo, «rimettere al centro il tema della prevenzione attraverso la formazione. Un investimento necessario per ridurre le spese sanitarie di domani e per un sistema sanitario più sostenibile. A tal proposito, chiediamo di istituire un’ora di educazione sanitaria nelle scuole, di ogni ordine e grado». Infine. «proponiamo la costituzione un Osservatorio sulla povertà sanitaria, un luogo anche di monitoraggio che raccolga e renda trasparenti tutti i dati relativi alla sanità, formato da ministeri, Regioni, associazioni degli operatori sanitari e associazioni dei consumatori. Solo attraverso un approccio collaborativo, responsabile e trasparente sarà possibile affrontare le sfide attuali e garantire risposte tempestive alle esigenze delle persone».

7 maggio 2024

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